Gilberto Serembe Fondatore dell’ ICA
Direttore d’Orchestra, didatta, educatore e talent-scout italiano è nato a Milano il 17 Dicembre 1955.
Formatosi alla prestigiosa scuola italiana degli ultimi grandi maestri: Franco Ferrara, col quale ha studiato all’ Accademia Chigiana di Siena e Mario Gusella (scuola di Hermann Scherchen) col quale ha studiato al Conservatorio “G.Verdi” di Milano. Qui, giovanissimo studente, si è diplomato in Composizione con Bruno Bettinelli, Maestro di prestigiosi direttori e solisti, quali Claudio e Roberto Abbado, Muti, Chailly, Pollini, Ughi e Canino.
L’incontro con Carlo Maria Giulini avvenuto nel 1974 e col quale ha intrattenuto per alcuni anni un costante rapporto, è stato eticamente fondamentale, incidendo in modo determinante sulle sue scelte e sulla sua carriera.
Ha diretto le principali orchestre sinfoniche e da camera italiane e prestigiose orchestre in Belgio, Olanda, Svezia, Finlandia, Ungheria.
E’ stato Professore Titolare di Cattedra al Conservatorio “Luca Marenzio” di Brescia e dal 1988 al 2010 ha insegnato Direzione d’ Orchestra ai Corsi Superiori di Alto Perfezionamento dell’ Accademia Musicale Pescarese e dal 2010 al 2012 all’Accademia Italiana per la Direzione d’Orchestra di Faenza, della quale è stato il Docente Principale e l’ispiratore. Ha anche tenuto Masterclass a Valencia, in Spagna. Nel 2013 fonda l’Italian Conducting Academy, con sede a Milano.
Moltissimi sono i direttori italiani e stranieri provenienti dalla sua scuola che hanno intrapreso carriere internazionali: Alvaro Albiach, Matteo Beltrami, Luca Capoferri, Diego Ceretta, William Dutton, Roberto Fores Veses, Federico Frigo, Riccardo Frizza, Gianmaria Griglio, Octavio Mas Arocas, Fabio Mastrangelo, Enrico Saverio Pagano, Matteo Pagliari, Paolo Paroni, Daniele Rustioni, Attilio Tomasello, Leonardo Vordoni, alcuni dei quali sue personali scoperte.
Gilberto Serembe è sposato con la compositrice Elisabetta Brusa.
Interviste
Intervista di Luca Ciammarughi a Radio Classica, 11.09.2015 – Prima Parte
Intervista di Luca Ciammarughi a Radio Classica, 11.09.2015 – Seconda Parte
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Contrariamente a quanto s’immagina, per dirigere un’orchestra non occorrono doti straordinarie di tecnica direttoriale né di preparazione musicale. Occorre semplicemente un discreto senso ritmico e un po’ di orecchio. Prova lampante ne diedero nel passato due tra i più grandi attori comici americani: Danny Kaye e Jerry Lewis. Chi ebbe la fortuna di assistere alle loro esilaranti esibizioni nella veste di direttori d’orchestra non può negare la grande abilità dimostrata, per chiarezza di gesto, incisività e per presenza direttoriale. Proprio Danny Kaye si esibì con l’Orchestra Filarmonica di New York in una performance, dove mimava gli atteggiamenti di alcuni direttori: il giovane alle prime armi, quello più navigato, il vecchio direttore alla vigilia della pensione, quello con i tic e una rassegna dei direttori di varia estrazione, dal teutonico intransigente al latino super focoso, dal nordico preciso al francese “tutto charme”. In pratica una divertentissima ma grande lezione di direzione d’orchestra.
Simili avvenimenti ci fanno capire che le scuole di direzione servono ben poco se non ci sono una predisposizione naturale alla comunicazione e una spontanea e innata musicalità, non tecnicamente acquisita. Si può apprendere una qualsiasi tecnica strumentale e arrivare a essere un buon esecutore (se ovviamente non esistono impedimenti fisici e una spiccata antimusicalità), ma difficilmente si potrà raggiungere un connubio tecnico-espressivo di spessore in ambito direttoriale, anche studiando caparbiamente per anni.
La predisposizione fisica è essenziale, certamente non un requisito di per sé sufficiente, ma molto importante perché componente primaria per una comunicazione espressiva e per l’impronta sonora propria di un direttore. Il possesso di una tecnica direttoriale non estranea alla propria fisionomia è basilare, ma non si creda così scontato. Molti musicisti passano dal proprio strumento al podio facendosi forza dell’esperienza artistica maturata negli anni, ma spesso con esiti mediocri perché considerano ovvio il risultato musicale. Non è così, perché la bacchetta non dovrebbe essere un corpo estraneo stretto in una mano, ma il prolungamento fisico e la proiezione mentale del direttore.
Il raggiungimento dell’armonia tra gesto e idea musicale, indispensabile unione per comunicare con l’orchestra, richiede tempo e maturazione continua. Un giovane musicista è sicuramente avvantaggiato rispetto a un collega più maturo, anche se quest’ultimo ha alle spalle una solida esperienza musicale. Il giovane ha più tempo per inquadrare la propria tecnica e soprattutto per migliorarla tagliandosela addosso, come un sarto confeziona un vestito. Naturalmente il corredo di conoscenze accessorie, in altre parole lo studio di uno o più strumenti, della composizione, degli stili, della storia della musica e l’appassionata frequentazione di discipline complementari, completerà la sua formazione; l’esperienza continua con l’orchestra, unione di uomini prima di tutto, e quindi l’esperienza umana lo arricchirà e contribuirà alla costruzione dell’individuo-artista. Un colpo di fortuna, se e come arriverà, sarà il benvenuto.
Il giovane aspirante direttore dovrebbe essere consapevole che da qualche tempo l’arte della direzione d’orchestra si sta trasformando; la figura “demiurgica” del direttore così come l’abbiamo conosciuta per decenni sta svanendo, se non è già addirittura scomparsa, e al suo posto è subentrata, e sfortunatamente accettata, quella di un “tecnocrate della bacchetta” pronto a qualsiasi compito di coordinamento, come un buon manager con i suoi collaboratori. Oggi ai giovani direttori sono richieste prontezza, salute psico-fisica, efficienza e devono dimostrarsi inclini ad accettare di eseguire un po’ tutto il repertorio, anche se sovente a scapito della propria predisposizione e sensibilità. E’divenuta una triste consuetudine osservare un direttore cimentarsi con autori con i quali instaura conflitti esistenziali: conduzioni beethoveniane per Vivaldi, sfumature raveliane per Brahms, fragore mahleriano per Schumann e così via. Per non parlare della gestualità: ampie evoluzioni del braccio in brani che richiedono la massima discrezione oppure blocco da periartrite cronica della spalla per musica che richiede slancio e passionalità. Errori interpretativi e letture generiche del grande repertorio sono ormai all’ordine del giorno nonostante le lezioni di figure direttoriali gigantesche come Furtwängler, Klemperer, Toscanini, Walter e poi Bernstein, Böhm, Karajan solo per citare alcuni celebri nomi. Incredibile ma vero, anche nei luoghi consacrati alla grande musica, si ascoltano quotidianamente concerti noiosi, della peggiore routine tra la generale approvazione di un pubblico sempre più assuefatto, apparentemente insensibile e distratto. Da qualche tempo assistiamo a una sorta di generale omologazione alla quale l’esecuzione musicale sembra non sottrarsi e le orchestre di tutto il mondo, fatte poche e dovute eccezioni, sono l’esempio più tangibile di un appiattimento del gusto e di una sempre più scarsa sensibilità alla sollecitazione direttoriale. Vige una sorta di “rifiuto del comando”, una specie di autogestione, di accordo interno al quale i direttori, se vogliono dirigere, devono sottomettersi. E molti direttori d’orchestra sono stati e sono i peggiori “complici” di questa situazione. Le orchestre, a loro volta succube di situazioni spesso di comodo (direttori principali eletti per garantirsi contratti discografici e tournée) si sono ritrovate senza direttori veramente “stabili”, capaci e volonterosi di plasmare e curare il “sound” oltre che di instaurare quel rapporto umano, personale, teso alla fusione di anime prima ancora che di strumentisti.
Tutto ciò non deve disarmare il giovane direttore che si appresta ad affrontare un’arte musicale che rimane sicuramente tra le più affascinanti e che può riservare grandi soddisfazioni. E’ compito delle nuove leve di musicisti ricollocarla in una giusta dimensione e donarle un nuovo e vitale smalto. E’ compito dei maestri inculcare nei giovani il senso di onestà, artistica prima di tutto e intellettuale in senso più lato. E’ compito di tutti, musicisti e non, combattere la banalità, non accettare le mode “filologiche” senza senso e il tecnicismo esasperato che ha da tempo inaridito le esecuzioni; ricordare che la musica appartiene all’uomo e che è proiezione dei suoi sentimenti, delle sue passioni e delle sue intuizioni.
Gilberto Serembe
Estratto dal libro: MUSICA, Maestro! Trent’anni di tentativi per un’educazione estetica non ancora conclusa
http://incontrimusicali.blogspot.com/2012/10/trentanni-di-tentativi-per-uneducazione.html